Iniziamo con questo articolo la collaborazione con una figura mitica dell’alpinismo italiano, Franco Perlotto. Forse meno noto al grande pubblico rispetto ad altri (“non ho fatto la pubblicità della Sector”, scherza), Old Frank è stato tra i primi e principali promotori del free climbing in Italia sul finire degli anni ’70. Innumerevoli le arrampicate e le vie, spesso estreme, molto spesso slegato, troppe per darne conto qua: facile approfondire autonomamente tramite un motore di ricerca sul web. Franco ha poi avuto una seconda vita, quella del cooperante come consulente dell’UNHCR. E grazie ai progetti sviluppati e portati a termine si è guadagnato sul campo la laurea ad honorem in educazione ambientale. Di tutto ciò, le imprese da scalatore e da cooperante, Franco parla con modestia e solo se glielo si chiede, non ama mettersi in mostra.

Divenuto esperto di emergenze e di cooperazione allo sviluppo, ha girato il mondo, Africa, America Latina, Afghanistan; “Per un progetto nei Territori Palestinesi dovevamo fare entrare uno spettrocromatografo, per controllare l’acidità del terreno. Ci abbiamo messo un anno, per gli ostacoli posti dagli israeliani che non lo lasciavano passare: pensavano fosse un ordigno nucleare, non so..” ricorda.

Abbiamo incontrato Franco (a sorpresa, non sapevamo stesse lì) a fine agosto al rifugio che da qualche anno gestisce, lo splendido e difficile Boccalatte alla Gran Jorasse, in Val Ferret. Ci ha accolti e, bevendo un tè, ci ha raccontato come è arrivato lì, in quella che è la sua ennesima rinascita. E mentre parliamo una delle pareti che si affacciano sul ghiacciaio del Planpincieux continua periodicamente a scaricare (come, ci racconta, da tre giorni “è venuta giù una frana, non so quanto materiale, mai vista tanta così”), mentre le aquile volteggiano sopra le nostre teste. Dopo quell’incontro Franco ha accettato con piacere di collaborare con CAINO. E noi gliene siamo infinitamente grati.

Giornalista e scrittore [merita, NdR], collabora da anni con Avvenire: “Io non sono credente, ma per ciò di cui dovevo scrivere io non era un problema. Potevo scrivere ciò che volevo, di montagna. Per i cinquant’anni della salita del K2, mi hanno mandato a intervistare Ardito Desio. Arrivo in questa casa da 600mq in centro a Milano, tutta rivestita di legno e mi trovo questo novantenne che saltava come un grillo. E nell’angolo seduta su una poltrona con la copertina sulle gambe una vecchietta decrepita. Inizio a provocarlo un po’ chiedendogli di Bonatti. E lui giù imprecazioni. La vecchina cerca di tenerlo buono. Allora gli chiedo di Cassin e giù insulti. E la vecchina ‘Non dirgli quelle cose, che è un giornalista e poi le scrive, fa il bravo papà’. Hai capito? La figlia era lì malferma sulla poltrona e lui era ancora lì a quasi cent’anni che si agitava e saltava come un elastico!”. Si chiacchiera su quella vicenda “Desio era imbevuto sostanzialmente di cultura fascista, c’era ancora tutta quella retorica. Era l’Italia che doveva trionfare nella figura del capo spedizione. Per questo scartarono tutti gli alpinisti più forti, quelli che avrebbero potuto mettere in ombra. Bonatti era giovanissimo, non lo considerarono una minaccia, sottovalutando quanto fosse forte”.

Gli chiedo “Mi interessa molto la tua vita da cooperante anche perché mi pare tu abbia di quel mondo una lettura problematica e critica, lontana dalla retorica tipica occidentale”

“Certamente, l’ho anche scritto in un capitolo del mio libro [“Un mondo mille guerre” NdR]. La cooperazione è o rischia di essere spesso la nuova forma del colonialismo. A livelli alti è tutto ‘do ut des’. Fai un progetto in Amazzonia e in cambio la FIAT può aprire gli stabilimenti a Minas Gerais. Poi ai livelli sotto ci siamo noi, ci sono le persone che si danno da fare. E questo era così già ai miei tempi, ma oggi i ruoli dirigenziali sono spesso il parcheggio per il figlio del potente perchè possa farsi curriculum sul campo e quindi ottenere un posto in ambasciata o all’ONU.” Continua “Ma tieni presente che la cooperazione in Italia di fatto nasce nel ’54 con la salita al K2. Si mosse persino De Gasperi. Il diritto a salire doveva andare agli statunitensi: l’Italia se l’è comprato in cambio della costruzione di un ospedale” .

Mi dice, mentre ci avviamo alla fine della telefonata “La cooperazione in Italia nasce da due tradizioni, da un lato quella cattolica, dall’altro la nostra quella degli ex sessantottini: ciò che poi è stato chiamato il cattocomunismo. E in effetti è un po’ così” ride.