Sabato siamo stat@ sul Wasenhorn (la punta di Terrarossa in italiano) partendo dal versante svizzero, dal passo del Sempione.

Già durante il viaggio ci rendiamo, e non certo per la prima volta, conto che territori morfologicamente unitari e un tempo antropologicamente contigui (abitati da popolazioni, da persone che condividevano riferimenti, lingua, usi, abitudini) sono oggi tagliati dai confini. I confini arbitrari dello stato nazione, la pesantissima eredità risorgimentale e novecentesca. E proprio queste linee immaginarie hanno modellato le differenze, lungi dal ratificarle.

Linee che per noi sono rappresentate da una dogana, una sbarra alzabile, un paio di baretti – uno per lato –, al massimo una breve coda in auto. Ma che per molte altre persone, “colpevoli” di non essere nate qui, sono la negazione del diritto alla speranza. E questo divieto non è solo in mare, continua tomba, ma è tornato a coinvolgere le nostre montagne, quando forse non ce lo saremmo più aspettato. I confini presidiati, gli accordi bilaterali, le telecamere oltre confine.

La montagna ha a lungo unito, mai lo spartiacque è stato limite o generatore di differenza, ed è facile rendersene conto dall’alto: le differenze erano con la pianura, un altro mondo visto da lassù. E ora i colli, i passi, le bocchette tornano a essere teatro di morte per chi cerca di valicarli nel tentativo di uscire dalla gabbia. E questo, oggi, in tempo di “pace”.